Il Lago dei cigni. Un canto del nuovo Balletto di Roma
Una nuova versione del Lago dei Cigni del Balletto di Roma allude al Canto del Cigno di Čechov.
Non “reduce”, bensì “fresco” di un cambio di direzione, il Balletto di Roma ha appena concluso le tre repliche romane de Il lago dei cigni, ovvero il Canto, creazione di Fabrizio Monteverde (uno dei tre coreografi associati alla compagnia insieme ad Alessandro Sciarroni e Paolo Mangiola). Questa contemporanea versione del classicissimo lago fonde la narrazione canonica del balletto al racconto Il canto del cigno di Anton Čechov. La coreografia è scritta secondo quello stile neoclassico che ha segnato, nell’Italia degli anni Novanta, l’inizio di un nuovo Rinascimento fiorentino, questa volta prevalentemente tersicoreo: attorno al Balletto di Toscana si è infatti formata una generazione di danzatori e coreografi di alta qualità e respiro internazionale dalla quale discendono artisticamente sia Monteverde sia la compagnia romana. Ancora un po’ in bilico tra le categorie “danza” e “balletto”, questo stile potrebbe essere definito “balletto contemporaneo”: una danza tecnicamente impegnativa che punta alla destrutturazione dei codici accademici attraverso, per esempio, l’introduzione di una fluidità corporea più morbida e lo spostamento dell’asse fuori dal centro del corpo. È una danza contemporanea, questa, che non dà modo di formulare la fatidica, fastidiosa domanda: “Ma questa è danza?”. La vittoria che il Balletto di Roma si conquista, in questo senso, risiede nella capacità di rientrare nella categoria estetica del “contemporaneo” senza perdere, tuttavia, leggibilità. Oltre a un’indole accogliente verso il pubblico, anche quello meno avvezzo alla danza, ciò che la compagnia sembra rivendicare è un modello di professionismo del danzatore che, di questi tempi, molti coreografi tendono a mettere in discussione, arrivando a volte a negarlo completamente. Ne consegue il fatto che gli spettatori riescono ad “accettare” la componente innovativa e meno immediata della coreografia senza provare quel senso di impenetrabile distanza che, secondo alcuni, la danza contemporanea comunicherebbe.
Nato nel 1960 grazie a Walter Zappolini e Franca Bartolomei, il Balletto di Roma è stata una delle prime compagnie a conduzione privata riconosciute dallo Stato. Da gennaio 2015 l’ensemble è diretto da Roberto Casarotto e, al di là del suo statuto, è un progetto vitale che mira al futuro volgendo lo sguardo e muovendo i suoi passi anche oltreconfine. E questo, sulla scena, anche su quella del Teatro Brancaccio, è stato un dato estremamente presente: si sente il respiro profondo dato dalla consapevolezza di una valenza storica, felicemente unita a una ferrea, tuttavia leggera e fresca disciplina del presente. La visione di Fabrizio Monteverde sull’opera emblema della danza classica permette alla narrazione di superare le svariate interpretazioni psicanalitiche che questo balletto per sua natura attrae. Sono certamente parte della storia, ma anche dell’attualità della danza contemporanea numerose riletture de Il lago dei cigni. Questa del Balletto di Roma, in particolare, si caratterizza per una variante drammaturgica derivata non da una diversa interpretazione dell’intreccio, ma dall’innesto di una narrazione altra, direttamente da un altro testo. Monteverde compie dunque un gesto piuttosto anarchico affiancando Čechov alla storia doppia di Odette/Odile: la decostruzione narrativa del balletto, declinata secondo lo spunto drammaturgico offerto dal racconto dello scrittore russo, fanno di questo lago una spirale, un labirinto senza via d’uscita quale è talvolta la vita del danzatore, sempre tesa verso qualcosa di irraggiungibile. Lungo l’arco disegnato da questo desiderio d’infinito, tramite l’accostamento con la figura del vecchio attore immaginata da Čechov, è qui resa possibile – finalmente – non l’ennesima reinterpretazione, ma la liberazione di tutti i significati della storia e dei personaggi. Visivamente segnato, come ogni Lago che si rispetti, dal bianco e dal nero della doppia protagonista, la composizione danzata dal Balletto di Roma è un coraggioso affondare nel reale grigiore dei corpi “da vecchi”, fatti di forze perdute e di una grazia ormai troppo antica. Così è affidato ai giovani danzatori il compito di rappresentare l’inaccettabile vecchiaia: il decadimento corporeo li consuma poco a poco rendendoli prima grottescamente affaticati poi platealmente, disperatamente inadatti al rigore e alla forma richiesti dalla disciplina accademica. E a fronte di questa decadenza emerge comunque dalla narrazione un’armonia che non scaturisce dalla speranza che questa storia – insieme al lieto fine – nega, ma dal canto di morte che non sembra mai voler terminare, come un mantra circolare che attraversa tutti i possibili opposti.
All’apertura del secondo atto, seduta al centro del palco, la nivea Odette (Roberta De Simone) si cerca in un piccolo specchio, mentre alle sue spalle, sul fondale, è ammassata una piramide di stoffe e costumi. L’immagine richiama piuttosto apertamente la scultura di Michelangelo Pistoletto manifesto dell’Arte Povera: la Venere degli stracci (1967). L’altra protagonista, Odile (Anna Manes), entra invece in scena per la prima volta muovendo passi incerti nelle sue scarpette da punta ancora slacciate: il cigno nero sembra dover ancora affinare il suo carattere e appare come una marionetta mossa dalla mente del perfido Rothbart (Luca Pannacci), che sta architettando il subdolo progetto di confondere Siegfried (Mirko De Campi). È infatti da una fessura dell’ammasso oscuro di tessuti che emergerà nuovamente Odile, questa volta “compiuta” nel suo carattere e nelle sue intenzioni. Ed è sempre là dentro, in quel buco nero che aspira i corpi come un vortice, che sparirà anche il principe Siegfried. All’eterno femminile di Odette, alla fine, è restituita un’umanità intera che si esprime attraverso la sua candida nudità: carne offerta e liberata di una sacralità che altrimenti costringe fino a soffocare.
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Gaia Clotilde Chernetich – 13 marzo 2015