Tra Čajkovskij e Čechov, un Lago dei Cigni che celebra la vecchiaia e l’eterno ritorno dell’uguale
Un ballo nietzschiano. Un desiderio di immortalità e di bellezza in scena al Brancaccio di Roma fino a domenica
«È cosi freddo, così gelido, che a toccarlo ci si brucia le dita! Ogni mano che lo avvicini ne prova paura! – E appunto per questo molti lo credono rovente». Scriveva Friedrich Nietzsche in “Al di là del bene e del male”.
E un vento gelido c’era per davvero ieri sera al Teatro Brancaccio di Roma. Un vento della steppa ha abbracciato gli spettatori dall’inizio alla fine de “Il lago dei cigni, ovvero il canto”. Uno spettacolo liberamente ispirato al balletto di Pëtr Il’ič Čajkovskij, e al testo “Il canto del cigno”, atto unico del 1887, di Anton Pavlovič Čechov .
La compagnia di danza, “Il Balletto di Roma”, porta in scena uno spettacolo di Fabrizio Monteverde, che rielabora un mito per introdurre lo spettatore in una dimensione di gelo e fiamme. Una sinfonia di gesti. Tutti i ballerini sono stati in grado di dosare ironia e sacralità. Profanare il sacro è pericoloso. Ci sono riusciti perfettamente, saltando tra uno straccio e una lacrima e un colpo della strega.
La compagnia di vecchi attori rievoca i fasti di una giovinezza andata, smarrita o persa. La gloria rimembrata della flessione del corpo, il desiderio di rievocare premura di un gesto delicato, li spinge a voler ripercorrere un Lago dei Cigni a uso e consumo di corpi che si “consumano”. Questo Lago, che è un Canto di addio, dissacra il balletto; ne smobilita i pezzi per indagare sulle dinamiche di un tempo che non scorre.
Le forme del balletto, che in taluni momenti diventano anche grottesche, come nella rievocazione “per braccia sole” del famoso Pas de Quatre, sono così una metessi dell’idea del balletto originario; ma proprio così come le Idee e le cose sono distanti, così, anche qui, il Balletto e il Canto sono differenti. Tutto gioca sull’ironia onirica di qualcosa che se ne va, anzi se ne dovrebbe andare.
Odette-Odile è vecchia. E’ stanca di una lotta che emerge da una eternità. Vuole, disperatamente vuole amare ed essere amata. Ma carnalmente. Una carne che nell’anzianità ritornare “afflatus”, un desiderio di giovinezza. Una carne bianca, eburnea, nobile, formosa, come il seno splendido che si immerge nella luce di un bacio finale nell’ultimo istante del ballo. Splenida Odette, su di lei scivola e splende la frase di Nicolás Gómez Dávila: «La sensualità è la possibilità permanente di riscattare il mondo dalla prigionia della sua insignificanza». I maschi nel balletto servono come specchio per la bellezza delle femmine. Eppure, il principe rachitico e claudico e Rothbart incantano con una performance che va ben oltre l’artistico. Con uno scarto, funzionale al messaggio, il corpo degli artisti si ridimensiona al messaggio, diventando un messaggio stesso. Quindi dalla lotta tra il Principe e il Mago, dal loro zoppicare, emerge, silenziosamente dagli abissi della musica, un messaggio di “eternamente uguale”. La volontà di potenza di un ente qualsiasi è la sua stessa essenza. Per questo motivo la volontà dei due non è di avere Odette ma di possedere solamente il possedere. Non è andare oltre, ma è solo il continuo perdurare dell’atto stesso. Potrebbero ballare in un eterno mondo, senza spazio né tempo i due. Perché entrambi sono l’incarnazione fisica e perciò stesso eidetica di un mondo che è soltanto “l’eterno ritorno dell’uguale”.
GiornaledellUmbria.it
Leonardo Rossi – 7 marzo 2015