I cigni corrosi e indomiti di Monteverde
Ha debuttato al Comunale di Ferrara ed è già in tournée il nuovo Lago dei Cigni firmato da Fabrizio Monteverde per il Balletto di Roma: una parabola sul senso profondo dell’essere artista e perseguire l’ideale nonostante il tempo e le delusioni della vita
Da sempre uno dei temi portanti della poetica di Fabrizio Monteverde è il ‘corpo corroso’: dalla malattia, dalla infermità, dalla vecchiaia. Un corpo che si deteriora, perde la sua compattezza, si disfa nelle giunture e nei muscoli. Contrasto stridente, a tutta prima per chi, come lui, è coreografo che ama la danza-danza e fin da subito, nonostante la sua formazione schiettamente contemporanea e di teatro performativo (quello storico e radicale anni ’70) ha comunque orgogliosamente sbandierato il suo amore per le linee del balletto (neo)classico e quindi per un’estetica che della bellezza e armonia ha fatto i propri canoni.
A ben pensarci però tutto questo torna perfettamente con lo spirito inquieto, passionale, tormentoso e romantico delle piéces di danza che Monteverde ha firmato in questi trent’anni di creazione, per altro riuscendo perfettamente a concepire spettacoli intriganti per i cultori del balletto psicologico ma godibilissimi anche per il grande pubblico. Così il suo approdo al Lago dei Cigni in fondo non sorprende: il balletto simbolo di una certa concezione della danza classica, giunta però con esso al suo languido tramonto (o, piuttosto, alla necessaria ‘evoluzione’ emozionale, insinuata da Lev Ivanov nei palpiti della sua Principessa Cigno preannunciante i tremori espressionisti della danza novecentesca) ha in quanto tale una forza meta-teatrale, simbolica e iconografica che assimila il ruolo delle fanciulle-cigno alla condizione stessa del danzatore classico – rappresentazione di un bello ideale cristallizzato e atemporale.
Né sorprende che, proprio in virtù dell’irresistibile attrazione per il corpo ‘corroso’ di cui sopra ma forse anche la sagace constatazione dell’attuale condizione dei ballerini delle nostre Fondazioni Liriche (buttati là nelle loro sale prova, in gran parte abbandonati, ormai invecchiati e in disuso, in attesa che la pensione se li porti via e consenta ai nostri teatri di chiudere con l’attività di balletto stabile) Monteverde abbia immaginato che a danzare il Lago fosse una compagnia di artisti ormai ingrigiti, doloranti, alle prese con la quotidiana, invincibile battaglia contro l’ideale ormai sempre più lontano, astratto, utopico. La condizione dell’artista, insomma, le sue miserie umane e le sue tensioni ideali incastonate dentro la cornice di un Lago che s’ha da fare, nonostante tutto.
Non a caso, l’autore accosta il titolo cult a un atto unico di Cechov, Il canto del cigno, storia patetica di un attore ormai anziano che, rimasto chiuso nel teatro vuoto, torna con la memoria ai suoi ruoli antichi, vagheggia i trionfi mai avuti, rimpiange la vita sfuggitagli di mano mentre compiva il suo servizio al Teatro. E così strutturato il plot in una sorta di opera metaforica, Monteverde la fa danzare a ‘vecchi’ e ‘vecchie’ – ballerini bolsi e canuti, danzatrici ingrigite e rugose (grazie a sapienti trucchi e maschere che rimandano a May B. di Maguy Marin ma soprattutto ad un tenero e toccante Romeo e Giulietta over sixty firmato qualche anno fa dallo stesso Monteverde, La fin du jour) – in mezzo a un mondo di vecchi abiti che si ammonticchiano come nella celebre Venere degli stracci di Pistoletto e dentro ai quali, lacerti di vita passata, i vecchi artisti arrancano, si tuffano, si nascondono.
Ciaikovsky guida la narrazione tradizionale del ‘Lago’ da allestire, ma anche, nel crepuscolo delle sue malinconie, i dolori fisici e spirituali di una Odette al tramonto costretta dalla crudele legge del teatro a specchiarsi nella più fresca e pimpante Odile, tra un maitre, Rothbart, aguzzino spietato e un partner – Sigfrido – vanitoso e fatuo come solo certi divi del balletto sanno essere.
È proprio là dove Monteverde ricama la sua coreografia sulle tessiture di quella assoluta di Ivanov e Petipa che la forza drammatica ed emozionale del lavoro prende quota; come quando Odette danza il suo solo del secondo atto, prima in purezza e poi sempre più disarticolata ed esangue, rivelandoci sforzo fisico e disperazione. Oppure quando alcuni stilemi di Ivanov diventano spunti per uno sviluppo coreografico, come le braccia alzate – a mo’ di collo di cigni – dai danzatori stremati, a terra coperti dalle stoffe colorate della scenografia. Altre volte invece l’emozione e l’empatia dell’autore fanno spazio ad una danza vorticosa, quasi virtuosistica, bella ma autoreferente, e il distacco tra forma e contenuto diventa un po’ troppo evidente. Lo spettacolo, salutato alla prima assoluta del Teatro Comunale di Ferrara da un grande successo, è affidato al Balletto di Roma che con Monteverde ha da tempo stretto una liaison artistica proficua. Da parte loro i quattordici interpreti danzano generosamente e molto bene, a partire dall’ interessante Roberta De Simone, una Odette piagata ma invitta, come dimostra l’ultimo canto finale che, come in ogni piéce monteverdiana che si rispetti, ci riserva un giusto e catartico coup de théatre.
delTeatro.it
Silvia Poletti – 11 dicembre 2014