Per Romaeuropa Festival 2015 andrà in scena al MAXXI – Museo Nazionale delle Arti del XXI secolo la creazione TURNING/Symphony of Sorrowful Songs, nata della collaborazione tra il Balletto di Roma e l’artista Alessandro Sciarroni che abbiamo incontrato a Bassano in occasione della conclusione del progetto europeo Migrant Bodies, all’interno del quale è nata la prima versione di Turning. Dalle origini della sua ricerca performativa tra i ricordi di famiglia, alla creazione di una performance, passando per i momenti più interessanti del progetto europeo, Alessandro Sciarroni ci ha raccontato qualcosa di sé e di come nasca “Turning”, per approdare a una ricerca che scava nell’essere umano…
Come nasce il bisogno di essere coreografo/performer?
Partiamo proprio dall’inizio…beh, per caso. Io in realtà non ho pensato all’inizio di fare il coreografo, dato che vengo dal teatro e dalle arte visive, quindi è stato un po’ il mondo della danza ad accogliere i miei lavori. E anche col teatro è stato un incontro casuale: cercavo un hobby durante il periodo dell’università. Mentre a instillarmi l’amore per l’arte e la letteratura è stata una professoressa di lettere. Non è una vocazione che avevo fin da bambino quindi, però se ci penso adesso è anche vero che forse è stata sempre lì da qualche parte.
Qual è la tua definizione di performance?
Ce ne sono tante. Performance infatti ha due origini come parola: se parli con un artista visivo e uno teatrale ti parleranno di storie dalle epoche parallele ma con nomi diversi. Di certo è un genere di evento che abbatte la quarta parete, che non vuole relazionarsi con un certo tipo di rappresentazione. Marina Abramovich dice che, a differenza del teatro, nella performance rimani te stesso e nel luogo in cui ti trovi, non sei un personaggio in un altro luogo. È una semplificazione che mi trova abbastanza d’accordo: secondo me “performance” significa entrare in un sistema che non ha personaggi ma piuttosto azioni. In questo la danza si inserisce in maniera naturale, perché ha già la possibilità di essere azione, e contiene già il concetto di performance.
Come crei le coreografie/drammaturgie? Come lavori sui tuoi progetti?
Non voglio fare il misterioso o il fanatico del caso, ma normalmente non progetto di lavorare a qualcosa, semplicemente un giorno arriva un’intuizione su un argomento…e se è una cosa che mi ritorna in testa più volte, probabilmente verrà trasformata in progetto. Una volta delineato il progetto e trovata la produzione, si iniziano le prove per capire dove andrà a finire l’idea. Non sono un regista che arriva alle prove con un disegno già chiuso, ma sono un artista che arriva alle prove con un’intuizione da condividere con i propri collaboratori. Vedo l’opera come un enigma, che ti si presenta e non sai come risolvere. I pezzi migliori sono proprio quelli che l’enigma non lo risolvono fino in fondo, ma lasciano aperte molte questioni; e la ricerca drammaturgica finisce quando trovi la domanda. Non la risposta.
È cambiato il tuo approccio alla creazione di un nuovo progetto dopo le collaborazioni e gli incontri di “Migrant Bodies”?
No, perché da anni sto facendo un lavoro costante sulle pratiche di gruppo: sono sempre stato affascinato dai movimenti collettivi di uomini e animali, quindi il progetto è stato una conferma di ciò che mi interessava esplorare. Oltre alla migrazione delle persone per me è stato affascinante studiare il movimento dei salmoni a Vancouver, e a Zagabria quella delle cicogne. Perché in queste azioni riconosco qualcosa che è presente in ognuno di noi.
Cosa ti ha colpito di più nel progetto “Migrant Bodies” a parte questi due approfondimenti che citavi?
Tutto. L’incontro a Zagabria con la comunità rom, o l’incontro con i rifugiati. Ma anche la conferenza di Montréal sulla migrazione delle cellule nel corpo, interessante perché ha parlato di scale di grandezza: per me ad esempio il fatto che il virus in un corpo umano sia equivalente al corpo umano sulla Terra, non ha fatto che rafforzare la mia intuizione.
Concentriamoci sulla seconda parola del progetto, bodies: cosa cerchi in un interprete e qual è il tuo lavoro sul corpo, la preparazione a una messa in scena, magari impegnativa come quella di “Turning”?
Dipende dal lavoro: alcune performance estreme richiedono una preparazione fisica specifica, altre una preparazione mentale. Perciò il training è diverso per ogni performance. E per i performer è lo stesso: adesso sono tornato a lavorare con danzatori, perché è così che immagino il progetto.
Perché scegliere proprio la parola “turning”?
(Ride) Lo ammetto, come pratica personale amo, e lo dichiaro, rubare i titoli dalle canzoni degli altri. Thank you for your love è una canzone, ma anche Turning viene da Antony & the Johnsons, un titolo di una canzone eseguita per una collaborazione con un artista visivo che legò l’idea di turning a un’idea di transizione, che mi ha molto colpito. Ed è effettivamente un’azione che puoi legare a tante cose diverse.
Anche questo sarà dunque un progetto articolato in più capitoli, dato che a Venezia aveva il sottotitolo “Thank you for your love”?
Sì, c’è la versione “Migrant Bodies”, c’è la versione veneziana Thank you for your love che parla d’amore, ci sarà la versione per il Balletto di Roma al Maxxi: Simphony of sorrowful songs, un titolo ripreso da un’opera di Gorecki. E poi mi piacerebbe creare qualcosa per palcoscenico per il Balletto di Roma. Quindi questo progetto cambia, si trasforma; anzi, mi sembra che già nel titolo ci sia questa possibilità di variare.
Perché scegliere la pratica di girare su se stessi?
Per un’intuizione, che andava verificata. E l’ho verificata: pensa a questi grandi uccelli che vanno e vengono lungo la stessa rotta, è proprio un movimento circolare. O i salmoni: loro passano dall’acqua dolce alla salata, il loro corpo subisce una trasformazione, ma quando sentono che stanno per morire tornano dove sono nati.
L’azione sembra in effetti non parlare in maniera diretta di temi di grande attualità: non cito nessun evento, faccio un viaggio e si vede che lo faccio, ma non dico che viaggio sia. Mi sono interrogato molto su questo, perché penso che in questo momento storico sia molto importante prendere una posizione rispetto alla diffidenza e alla rabbia diffuse…Ma alla fine quello che davvero è politico per me è il corpo, perciò ho deciso di non aggiungere niente.
Credi che ci siano dei temi ricorrenti che legano le tue performance? L’amore, il tempo…?
Sì, ma è anche vero che anch’io cambio: nel 2007 ero ossessionato dalla tematica amorosa, adesso sto lavorando sullo sport. Mio padre è molto colpito da questa scelta perché non mi sono mai interessato allo sport: lui racconta sempre che quando mi portò allo stadio la prima volta, mi perse tra la folla e poi si accorse che ero a bordo campo a guardare il pubblico anziché la partita. E lui lo racconta come se fosse la mia prima performance, ma in realtà non è così: io ero ipnotizzato dal pubblico come se quelle persone stessero performando per me, non il contrario.
Perciò il filo conduttore è certo questo: ciò che di specifico ed estremo c’è nell’essere umano e le manifestazioni di questa specificità, nella quale, più è assurda e irrazionale, più noi riconosciamo qualcosa che ci fa paura, ma ci affascina.
Intervista a cura di Greta Pieropan pubblicata il 21/7/2015
Nell’immagine Alessandro Sciarroni