Presentazione a cura di Silvia Poletti
Fabrizio Monteverde ha fatto la storia del teatro di danza italiano degli ultimi trent’anni, sviluppando la coreografia ‘drammatica’, incentrata su un intreccio, spesso ispirato da testi letterari o teatrali, e tradotto in una teatralità danzata di forte visionarietà. “Mi piace investigare lo spazio bianco tra una parola e l’altra” afferma il coreografo, che ha creato balletti basati su Shakespeare, come su titoli del repertorio della grande tradizione.
Dopo una lunga pausa, quest’anno Monteverde è tornato alla creazione, ancora una volta con e per il Balletto di Roma, compagnia con cui collabora ormai da vent’anni. Per l’occasione la scelta è caduta ancora su un titolo letterario (l’immenso Don Chisciotte) a sua volta diventato anche amato balletto classico. Una sfida doppia quindi per l’autore romano, chiamato a enucleare in danza il mito dell’anacronistico sognatore di Cervantes e omaggiare una tradizione coreografica che lui stesso non manca mai di riverire.
In Io, Don Chisciotte Monteverde parte dal chiedersi a chi può somigliare oggi Il cavaliere di Cervantes, nutrito di sogni e chimere e a disagio con i tempi nuovi. E la risposta – subito dopo la dedica che apre a chiare parole lo spettacolo – è quella che appare nella scena buia, appena illuminata da un cono di luce. Il nuovo Don Chisciotte è un outsider, fuori da regole e schemi, forse un vagabondo perso nei suoi libri. Il suo Ronzinante è una scassatissima Renault 4. Sancho Panza, compagno umile e fedele, si trasforma in una homeless incinta, che si arrabatta come può in una società indifferente, ma violenta in azioni e parole. Le avventure antiche si traducono nel balletto in scene metaforiche di continua lotta per la sopravvivenza e per il diritto a perdersi nei propri sogni. Che possono anche essere generati con un trip di acidi e conducono in un mondo dove anche una prostituta può diventare una leggiadra Dulcinea. Per i conoscitori del classico di Petipa sarà uno sfizio in più riconoscere scene celebri come quella, ora citata, ritrascritta in maniera contemporanea e alcune danze (quella dei toreri e muletas) reinventate. La scelta di mantenere le musiche di Ludwig Minkus accresce il senso di uno spettacolo-parabola, dove il tocco d’autore non manca mai di colpire con emozioni profonde, culminanti nell’abbagliante immagine finale, sunto tragicamente perfetto di un “sentire” che proviene chiaramente da una riflessione d’autore.