In tutti questi appuntamenti di GiovedìGiselle (e Giselle anche di martedì, spesso), abbiamo incontrato spesso riferimenti ad altre versioni o al debutto del balletto. Ma qual è la storia del balletto Giselle? È sempre stato così fortunato? E quali sono le riletture più recenti? A queste e altre domande risponde il testo di Elisa Guzzo Vaccarino, già pubblicato in altra versione, e qui riproposto per una carrellata storica davvero sorprendente…
“Giselle”, nella sua lunga storia, dopo una partenza folgorante, ha incontrato più di una volta le sue difficoltà a farsi amare, a farsi capire, o anche solo a sopravvivere.
Basta pensare che mancò dai cartelloni all’Opéra di Parigi, la città dove era nata, per ben dieci anni, dal 1853 al 1863, e poi dal 1868 al 1910, e questo proprio nel teatro dove aveva subito trionfato fin dal debutto nel 1841. Negli anni di “astinenza” dalla scena parigina, “Giselle”, però, era migrata dalla Francia in Russia (dove Marius Petipa ci aveva messo mano da par suo) e ritorno, disincarnata romanticamente da Tamara Karsavina, stella dei Ballets Russes di Sergej Diaghilev, la compagnia epocale che tra il 1909 e il 1929 significò in sé l’innovazione stessa del modo di presentare e vivere il balletto come forma d’arte. Poi sarà la divina Alicia Alonso, che nel 1948 volle allestire “Giselle” a Cuba”, tempio di Tersicore ai Caraibi, a riportarla, a sua volta, nuovamente a Parigi nel 1972, in una versione incisiva, asciutta, commovente.
Dunque, “Giselle”, grande viaggiatrice, è sempre risorta dalla sua tomba tra i fiori; e si può facilmente immaginare che anche per il futuro avverrà la stessa cosa, pur nelle svolte del gusto e della storia, quella con la S maiuscola. Anche se, pure in anni recenti, salvo ovviamente mantenere sempre una nicchia nel cuore dei cosiddetti “ballettomani”, “Giselle” ha dovuto lottare per mantenere il posto che le compete, come forma compiuta e perfetta di “opera drammatica in danza”.
Si allude qui agli anni della messa in discussione di ogni cosa, il ’68 e i successivi, quando “Giselle” poteva certo apparire, nella versione “tradizionale”, cosa vecchia e del tutto lontana da una sensibilità contemporanea, tanto più se femminista, tanto più se iniziata ai codici e ai contenuti della danza moderna, dalle eroine di Martha Graham al formalismo post-modern in avanti. Risale al 1979 una interessante dichiarazione di Merce Cunningham: “Giselle è un balletto la cui struttura è molto chiara, più chiara di quella di qualsiasi altro balletto classico. Ed è forte in tutti e due gli atti. Ma quello che mi interessa è che ogni volta l’interpretazione è diversa. Quella di Giselle. Quella di Albrecht. I Russi sono tutti diversi nei dettagli: cambiano il tipo stesso della danza. Non sono solo sfumature psicologiche. Nel secondo atto c’è molta danza e ho sempre visto suite in differenti arrangiamenti. Ma in fondo non ho visto spesso ‘Giselle’. Quando l’ho vista per la prima volta a New York, avevo già molto danzato nella compagnia di Martha Graham; e a quel tempo negli Stati Uniti non si davano balletti classici completi. Si dava il secondo atto del ‘Lago dei cigni’… brani scelti… La mia formazione è stata di danza moderna; ho vissuto nelle idee della danza moderna. Non ho un passato classico. Più tardi, ho studiato: ma la forma di ‘Giselle’ mi risulta esotica.”
E’ certo piuttosto significativo, quanto sopra, di quella che era, in un momento-cerniera della storia della danza, una contrapposizione tra classico e moderno, vecchio e nuovo. Oggi per altro superata, nel corpo stesso dei danzatori. Basta pensare che proprio all’Opéra di Parigi la compagnia danza sia “Giselle” sia le opere coreografiche di Cunningham, appunto.
Da parte sua George Balanchine, ultimo dei coreografi dei Ballets Russes e padre del balletto USA, nel 1954, aveva sostenuto: “L’innovazione di ‘Giselle’ sta nel fatto che assomma ciò che noi consideriamo un balletto romantico. Essere romantici significa vedere e capire quello che si è, e desiderare qualcosa di totalmente diverso. Ciò esige qualcosa di magico. I poteri misteriosi e soprannaturali invocati dalla poesia romantica per raggiungere il suo ideale trovarono presto un’espressione naturale nel teatro dove le ballerine vestite di bianco vaporoso sembravano parte del mondo eppure nello stesso momento al di sopra di esso.”
E’ da notare che queste affermazioni appartengono a un russo, americanizzato, che da questi tutù bianchi trasse ispirazione per i suoi balletti-concerto, astratti e raffinatissimi, formalizzati al massimo e anti-narrativi. A loro volta i suoi “figli”, come Karole Armitage e soprattutto William Forsythe, ne hanno distorto e dilatato il linguaggio neo-classico dando vita a quella aggressiva/”decreata” danza post-classica che assorbe in sé il classico e il moderno e qualsiasi altra modalità ed estetica del corpo danzante, in blocco.
Ma, per tornare agli anni ’70, come si poteva allora accettare, in quegli anni ribelli, un modello femminile di suprema devozione all’uomo? Che senso potevano avere tutù, scarpe da punta e romantica perdizione di sé?
E che plausibilità poteva avere, non solo in piena lotta per la parità tra i sessi, ma anche per l’uguaglianza sociale delle opportunità, la contrapposizione ragazza campagnola-nobile signore, un amore solo nell’800 ritenuto impossibile? L’esotismo fittizio, il carattere ultramondano di “Giselle” erano, inoltre, superati da un esotismo e da una ricerca di altrove all’epoca ben più concreta, come dimostra il Maurice Béjart, ad esempio, di “Bakhti”. Una sacca di appassionati e conoscitori, nondimeno, difendeva il balletto (vengono in mente, ad esempio, numerose prese di posizione di Vittoria Ottolenghi) con una motivazione inoppugnabile: un classico, se non viene continuamente riallestito, si perde ed è una scheggia di civiltà, nella fattispecie la nostra periclitante civiltà occidentale, a venire meno.
Questo non vuol dire che il valore di questa scheggia fosse presente a tutti e accettato da tutti, come si è visto. C’era, però, nel nostro Paese, che pure non è tra i più dediti all’arte del balletto, una Giselle straordinaria, Carla Fracci, che in questo titolo ha esposto indubitabilmente il meglio delle sue doti interpretative di ballerina “tragedienne”. […]
Nel 1982 Mats Ek, coreografo-regista di personalissimo talento “divergente” e di acuta sensibilità seppe trovare in “Giselle” una chiave di lettura “giusta” per i tempi. Con lui Giselle diventa fragile e sensuale, sedotta, delusa anche nel desiderio di maternità, impazzita, rinchiusa in casa di cura, dove i suoi due uomini, Hilarion, il fidanzato contadino, e Albrecht, il ragazzo di città, cercano di riportarla alla ragione e alla vita, senza riuscirci, e imparano una nuova solidarietà maschile, si inoltrano in un nuovo umanesimo. Emarginazione e follia sono trattate dallo svedese Ek, figlio di Birgit Cullberg, in modo “progressista”, “politico”, tale da situarsi immediatamente al centro del dibattito su questi temi, assai forte in quel periodo storico. E, alla luce di questo singolare affondo nel libretto, “Giselle” ha preso nuova vita, illuminando di riflesso anche la sua “sorella” classica, in cui si specchia, ricevendone e regalandole nuova linfa.
Dopo di che, sono nate, dunque, “logicamente” altre “Giselle” e altre ne nasceranno: alla fine del decennio Maryse Delente, coreografa lionese, appartenente al filone nouvelle danse, ha dato vita nella sua “Giselle ou le mensonge romantique” a una moltiplicazione della ragazza innamorata, come ossessione di ogni donna che ama troppo e desidera con frenesia l’immaterialità del corpo e della danza, superando i vincoli della carnalità e della società. Jean-Claude Gallotta per il Lyon Opéra Ballet, nel 1995, ha detto la sua “Autour d’Elle” con quella libertà di riscrittura che aveva già applicato a “Roméo et Juliette” e a “Don Juan”.
Dunque, “Giselle” si scrive e si riscrive, con passione, pescando nuovi temi e nuove meraviglie dal “baule” dei suoi tesori, e trovando sempre nuovi interpreti, che le regalano una nuova sensibilità, frutto del tempo (Non è, in verità un fatto nuovo. Visto il successo che il balletto, subito se ne scrissero parodie, come “La Wili”, al Théâtre du Palais Royal parigino).
Dunque, eccoci di nuovo, oggi, con una piena consapevolezza da nuovo millennio, di fronte a “Giselle”, svincolati da ideologie limitanti e da preconcetti di gusto, sia rispetto alla vicenda sia rispetto alla musica, funzionale certo, ma tutt’altro che “di dozzina”, scritta da Adolphe Adam, con il suo leit-motiv in qualche modo persino antesignano del pop. Un balletto, con la sua prima parte terrena e fatale, e il suo secondo atto candido, lunare, aperto alla speranza di una nuova vita per il protagonista, che, unico, è in grado di competere con “Il lago dei cigni” per il primo posto nel cuore dei ballerini e del pubblico di tutto il mondo.
Elisa Guzzo Vaccarino