Ha ricevuto un’accoglienza calorosa al Belgrade Dance Festival “Paradox”, nuova produzione che indaga il concetto di genere, affidata a Itamar Serussi e Paolo Mangiola. Proprio a quest’ultimo, autore di “Fem”, abbiamo chiesto come si affronta un tema così vasto, combinando differenti codici della danza, e su come si collabori con quattro danzatrici mettendo in risalto la loro individualità…
Da quali spunti sei partito e come sei arrivato a scegliere la danza classica come punto di partenza?
Il concetto di genere è molto vasto, ma subito mi sono chiesto cosa significhi essere in un determinato genere di questi tempi, quale sia l’allineamento tra ciò che siamo fuori, il nostro corpo, e ciò che siamo all’interno, frutto anche di educazione e cultura. Quante volte abbiamo sentito dire ‘ti muovi come una maschio’, oppure ‘sembri una donna’: fin dalla nascita i nostri corpi sono coreografati dalla cultura, dal contesto sociale e naturalmente dal genere; mentre nella mia ricerca il movimento è diventato la cartina al tornasole di una identità. La domanda è: sono allineato tra ciò che il mio corpo (e di conseguenza il mio movimento) rappresenta con ciò che io sono davvero? Mi sono chiesto: perché non utilizzare i codici della danza classica per indagare questo allineamento? Dopotutto quei codici sono stati per secoli rappresentativi di una donna che danza, ma come quei codici possano rappresentare una ragazza della nostra contemporaneità che per la danza si trasferisce a Roma era una domanda ancora aperta…
Come procede il lavoro poi da questa ricerca così ampia?
Il lavoro si è basato su molti dispositivi coreografici legati al senso di unità, accoglienza e allo stesso tempo di individualità: ho cercato di spingere il più possibile le ragazze a pensare individualmente all’interno di una cornice coreografica che io come coreografo – maschio, bianco – ho cercato di creare, senza “oggettificare” ancora una volta la figura femminile, ma dandole anzi degli strumenti coreografici. E il lavoro ha iniziato a prendere forma, partendo da un eccesso di contenuti che piano piano è stato “limato” per estrarre i contenuti più significativi.
Quali dunque le immagini più significative di Fem?
Alle danzatrici ho dato queste parole-guida: fragilità, identità, forza, coerenza, leggerezza, leggibilità, precisione. Un’altra idea alla base della coreografia è anche quella di supportare il lavoro dell’altra, e di indagare come tocchiamo il corpo dell’altro, come lo percepiamo.
Credo che come coreografo la grande sfida sia offrire almeno uno di questi contenuti al pubblico che decide di interagire con la danza. Non ho voluto però creare nessun tipo di definizione: piuttosto offrire una riflessione al pubblico, che può individualmente trovare una chiave di lettura e portare a casa una riflessione sulla donna contemporanea, che affronta la danza e che lentamente cerca di ritrovare il proprio corpo.
Il corpo e il movimento al centro di tutto dunque…
Il tema fa parte di una ricerca che ho iniziato da anni, che vede il movimento come fonte prima per sperimentare il mondo, creando punti di vista multipli. La danza ha questa capacità rispetto al linguaggio, quella di poter dare attraverso il movimento (anche il più astratto) differenti chiavi di accesso a chi la vede. Mi interessava vedere come questo funzionasse attraverso il filtro del genere.
Quali allora alcuni ingressi possibili per il pubblico?
Il primo è proprio all’inizio del lavoro: ci sono chiari riferimenti a un vocabolario riconoscibile, che abbiamo definiti pezzi di enciclopedia, poiché tutti – che sia per stereotipi o per conoscenza storica – riconoscono la posa di una ballerina. Da quel momento tutto si apre, attraverso un corpo che si muove in relazione ad altri corpi che si muovono, che crea qualcosa che all’inizio può essere difficile da codificare, ma che poi comprendiamo, perché tutti sperimentiamo il movimento. Non volevo essere didattico, anzi il pubblico è libero di seguire un performer solo, o tutti, o di concentrarsi su come si supportano l’un l’altro…
Come si mantiene il controllo creativo su un lavoro così complesso, senza però offuscare la personalità delle danzatrici e il loro contributo?
La mia grande fortuna è stata lavorare con Deborah Hay, dalla quale ho imparato a lavorare partendo da domande. Queste domande fanno scaturire all’interno di ogni performer scelte di movimento sempre diverse, così ho potuto evitare di dettare una frase coreografica o una composizione rigida, e ho invece creato una cornice basata su un materiale storico che tutti riconosciamo, ma che individualmente ogni volta lascia libere le interpreti.