Dal niente al tutto: al MAXXI l’entropia di Alessandro Sciarroni con ‘Turning’
C’è un senso nella circolarità, quasi una mistica (laica) ritualità, che oggigiorno forse abbiamo smarrito. L’Evoluzionismo tecnologico, tipico della “Modernità”, ha difatti a poco a poco eroso l’umile eppur infinita semplicità dell’eterno ritorno, spezzando la linea della vita in una retta che sempre corre vertiginosamente, ambiziosamente, se non asfitticamente, verso una meta irraggiungibile: è il passaggio dalla storia al progresso, dalla natura all’idealismo. Ed è per questo che di tanto in tanto giungono – maturano – le cosiddette crisi, per riavvolgere la linea e ricominciare, quasi, daccapo.
Sorprendente colpo di coda del RomaEuropa Festival (dopo l’– inevitabilmente – intellettualistico Hyperion di Muta Imago), Turning di Alessandro Sciarroni giunge proprio come una piccola grande tempesta che soffia nel ventre lasso del presente. Cosa significa? Che con un atto minimo, Sciarroni sovverte il potenziale in cinetico.
Tutto ha inizio nella Sala Gianferrari del MAXXI, da uno scalpiccio di scarpe da ginnastica su pvc: un rumore familiare, scricchiolante, quasi fastidioso, tanto che qualcuno, snervato dalla lunga attesa, bofonchia indispettito: “E beh? A camminare in tondo sono bravo anch’io!”. Ma ecco che quel suono così banale prende a moltiplicarsi: dapprima due, poi quattro, otto, sedici – i giovani danzatori del Balletto di Roma trasformano quel suono in qualcosa di più; tutti quanti ruotano attorno al centro della sala, scanditi come da un tempo altro, tra quei quattro piloni scuri che nel bianco più totale sembrano inaspettati punti cardinali di una dimensione fluida, senza coordinate.
Così, ancor prima del pensiero, qualcosa sorprende gli spettatori seduti lungo i quattro lati; ma non è tanto ciò che vedono bensì ciò che sentono: una corrente d’aria comincia a invadere lo spazio, a soffiare sui loro visi, a scuotere la loro stessa attesa. Sciarroni crea entropia là dove tutto sembrerebbe immobile.
D’improvviso, senza capire come o da quando, il pubblico è completamente mesmerizzato da quel movimento incessante – in continua evoluzione e apparentemente sempre uguale – di rotazione: i passi diventano salti, i salti piroette, le piroette turbinii da dervisci. A volte i danzatori si sfiorano, altre si scontrano, ma non c’è mai violenza, è una convergenza spontanea e genuina di traiettorie, atomi che si incontrano e scambiano la propria energia.
Certo si potrebbero cogliere moltissimi riferimenti in questo lavoro, più o meno espliciti, dalla danza di Paxton, De Keersmaeker o Jobin, alla fisica delle particelle fin pure volendo all’Angelus Novus di Benjamin, ma di fatto non è necessaria alcuna bussola culturale perché il movimento domina l’intera composizione e l’effetto è immediato: chiunque venga investito da questo vortice ne è inevitabilmente coinvolto. Non si osservano più i corpi, non si assiste più a uno spettacolo, lo sguardo si disperde in un punto indefinito, al centro, che sprigiona un’energia invisibile eppure potentemente tangibile.
Sciarroni, felicemente impermeabile a qualunque etichetta, crea senza mostrare e – caso rarissimo – senza neanche aver bisogno di evocare: nel vuoto manifesta il pieno e viceversa; restituendo così allo spettatore quella dignità, spesso perduta all’interno della convenzione chiamata teatro, di esserci e basta, emancipato da qualunque prurito estetico edonistico intellettuale e così via.
Non è niente, verrebbe quasi da dire, ma in questo niente si trova il tutto.
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Paper Street
Giulio Sonno – 8 dicembre 2015